DO NOT FORGET AFRICA – L’arte di ARMANDO TANZINI
di Luca Beatrice
Il solo punto di vista possibile sull’Africa
La Biennale di Dakar, la Biennale di Fotografia di Bamako, la notevole presenza di artisti africani in più edizioni della Biennale di Venezia e nell’ultima Documenta, l’attuale mostra itinerante Africa Remix curata da Simon Njami, ora al Centre Pompidou di Parigi, sono esperienze che testimoniano come l’Africa oggi si sia definitivamente imposta come una realtà operosa e produttiva nell’ambito dell’arte contemporanea.
Punto di svolta e autentica conquista sarà la rinuncia a un’approvazione extraterritoriale, smettere di attendere la legittimizzazione dell’Occidente vorrà significare il riconoscimento della stessa autorevolezza intellettuale africana e l’esistenza di un indiscutibile sistema comunicativo e critico autoctono.
I media spesso leggono il continente nero attraverso le sue catastrofi e i suoi esotismi, riducendone la portata culturale e sociale allo “straordinario”. Esiste in verità un “ordinario” africano del quale pochi hanno parlato finora. In quest’ambito si inserisce il circuito della cultura contemporanea locale, sempre più rilevante con lo sviluppo della società globale.
Oggi sappiamo che esiste un’Africa delle metropoli e delle tecnologie, della letteratura umoristica e del cinema in 16:9. Certi fattori integrati non possono più essere considerati frutto di condizionamenti esterni, visto che sono stati ampiamente interiorizzati dagli stessi africani.
Dal cono d’ombra in cui normalmente soggiorna l’Africa non solo spiragli di luce quindi, ma una limpida produzione artistica vive parimenti territorialità ed extraterritorialità.
Etnologi, antropologi e storici dell’arte occidentali hanno rappresentato per secoli il solo punto di vista critico sul continente nero. Ancora oggi si stenta a lasciare filtrare un “pensiero africano” sull’Africa. Conseguenza è stata la formazione di una sorta di mitologia alterata, concentrata quasi esclusivamente sugli aspetti tribali.
Simon Njami spiega come lo stesso africano possa essere veicolo di un’idea di africanità che non esiste: chi vive in Africa, e non ne è mai uscito, non può parlare dell’Africa, può parlare del suo villaggio o del suo quartiere forse, ma l’Africa è un’entità difficile da racchiudere a parole, ed è ancora di più difficile da conoscere dall’interno.
Armando Tanzini, nel suo essere non-africano, non-antropologo, non-nero rappresenta molto probabilmente il miglior punto di vista possibile sull’Africa.
L’artista, livornese di nascita e nomade per vocazione, vive un’Africa che è europea tanto quanto l’Europa è africana. Il suo sguardo evita i malintesi e le facili suggestioni ai quali, sa bene, l’occidente presta troppo spesso ascolto.
L’assurda fantasia per turisti fatta di percussioni e caccia al leone è una porzione di realtà kenyota, da non considerarsi come l’unica possibile ma nemmeno da trascurare nell’analisi della storia contemporanea di quel paese. Sarebbe un errore mantenere l’immobilità del territorio, altrettanto forzarne i mutamenti.
Il Kenya non può diventare semplicemente un parco a tema, un museo a cielo aperto del tribalismo, perchè così all’occidente piace immaginarlo, e neppure può ridisegnare tutte le sue coste secondo il modello Mediterranee, perchè così all’occidente piace viverlo. Fingersi pressoché esotico, laddove si è spesso semplicemente civile, inscenare rituali magici tradotti in sei lingue ed edificare assurde capanne in banano con tv satellitare vuole dire pensare al paese alla stregua di un parco dei divertimenti a tema.
La complessità della cultura africana è inimmaginabile, al punto che sarebbe meglio evitare di parlare genericamente di artisti africani e specificarne la nazione di provenienza (un pittore marocchino poco o nulla avrà da spartire con un suo collega senegalese), sarebbe corretto elencare i passaporti posseduti, le origini della famiglia, le città di formazione…
Nel caso di Armando Tanzini, proprio per la sua unicità di esperienza, è invece paradossalmente possibile parlare di un artista africano.
Sappiamo così poco di vero del continente subsahariano che guardare le opere di Armando Tanzini sarà come disvelare un mistero.
L’artista nel suo lavoro sembra riuscire in una sorta di traduzione, in un linguaggio a noi più vicino, della figurazione primitiva che conosciamo grazie ai musei archeologici e ai documentari. I codici segnici dell’arte tribale si fanno in lui intelligibili. E’ così che la simbolica linea sopracciliare arcuata della terrifica divinità diventa la rappresentazione minacciosa di una vera e propria strega, il seno spesso enorme e stilizzato della figura femminile africana diviene misurato e seducente, l’esorcismo della schematizzazione della potente bestia da domare o cacciare sono per Tanzini un dettagliato omaggio alla bellezza dell’animale.
La visione che Tanzini ha del continente che lo ospita è ben lontana dalle suggestioni esotiche che il “mito del selvaggio” ha esercitato su tanti artisti europei. Per lui quello non è un territorio al di fuori, bensì il fulcro di ogni civiltà: l’Africa non è solo un luogo geografico – spiega – è un punto centrale in pieno collegamento con l’universo– e continua – l’occidente ha molto poco tempo a disposizione ancora per capire che l’Africa ci ha fatti nascere tutti, aspetta solo la nostra profonda comprensione.
Neo-Primitivismo
Il primitivismo è stato una tendenza trasversale, non un movimento, e in quanto tale rimane ancora oggi uno scrigno aperto a nuove possibilità interpretative.
Alla base dell’approccio che le avanguardie storiche hanno avuto con il primitivismo non vi era un interesse per i contenuti etnografici, narrativi e iconografici dell’arte africana. Maschere e statuaria tribale erano state uno strumento per rileggere l’arte occidentale e capirne il decadimento, la debolezza. Spontaneità e fedeltà agli istinti confluivano in un ripensamento delle regole prospettiche. Picasso si interessò alle forme africane e se ne servì soprattutto in chiave polemica contro gli accademismi.
Tanzini si rapporta con il primitivismo in maniera ancora nuova: l’elemento etnico è da lui vissuto autenticamente, mai olografico e comunque necessario.
L’Art nègre è per Tanzini un’esperienza narrativa oltre che estetica. L’Africa diviene così forma e soggetto, media e messaggio.
Nei suoi lavori polimaterici, spesso pensati con un andamento seriale, il continente africano è una pista d’atterraggio che lo spettatore vede dalla sua nave spaziale. E’ l’approdo e il confronto con la Terra, arrivare in Africa è l’incontro per eccellenza. Ripetuta mille volte nella corteccia, nella terra e nella pietra, a tornare sempre è proprio la sagoma, in questa sorta di veduta aerea – del continente – isola africana, ossessione e paesaggio.
Le suggestioni di Armando Tanzini si muovono in maniera bidirezionale tra le sue autentiche radici e il paese dove ha scelto di radicarsi negli ultimi anni, il Kenya. Dall’Italia Tanzini sceglie di “esportare” non il clichè nazionale, l’accademismo di nostra tradizione o le recenti tendenze contemporanee, bensì le sue più profonde origini, quelle della cultura etrusca, avvolta nel mistero perchè in gran parte andata perduta. Io, un po’ etrusco, sono confuso nel sapere da dove vengo e dove sto andando ma, certamente, quell’arte che gli etruschi avevano dentro è quella che mi ha portato fin qui.
Spiega ancora l’artista livornese – con il tempo potremmo avere una fusione tra la nostra arte e la loro, così da tornare finalmente all’arte universale.
I codici etruschi si mescolano con gli ingredienti dei rituali kenyoti. Spesso gli stilemi di questi due mondi sembrano, più che amalgamarsi, coincidere perfettamente nelle linee, in certe forme allungate e nei colori della terra, al punto da far pensare a figure archetipiche, a un comune impianto iconografico tra queste terre lontanissime tra loro, sia nello spazio sia nel tempo.
Arti magiche
Nella cultura tradizionale africana non esistono le Belle Arti così come le intendiamo in occidente: le maschere africane non sono concepite per essere esposte in una vetrina museale, ma per essere indossate, dunque vissute. Questa differenza non è trascurabile e va a influenzare ancora oggi non solo la produzione artigianale ma anche quella artistica strettamente intesa.
L’oggetto è quindi sempre funzionale eppure non riducibile a una sorta di arnese o utensile, l’uso nasconde un elemento propiziatorio, scaramantico, magico.
E’ facile immaginare che le divinità e le figure apotropaiche di Tanzini siano dotate di proprietà occulte. Donne totemiche e regine, cavalli alati di memoria etrusca e streghe, re con occhi a losanga e ibridi zoomorfi. Ogni figura sembrerebbe essere un sarcofago o, meglio, un reliquiario al quale è devoto in preghiere e offerte una qualche aliena tribù. E’ quindi il mistero, che caratterizza e accomuna Etruria e Africa nera, a permeare ogni sua scultura, un’atemporale e astorica archetipica suggestione. La statuaria di Tanzini potrebbe essere tradotta come un’immaginifica teogonia. Il segreto del non detto spinge l’osservatore nel tentativo di decifrare il potere occulto, il patrocinio e il campo di attività di ciascuna delle sue creature.
A supportare questa suggestione è l’utilizzo che Tanzini fa dei materiali di recupero, fortuiti rilasci del mare, attesi sulla riva, quasi vi fosse una committenza sovrumana a volerlo vedere al lavoro e a condizionarlo.
L’artista recupera le potenzialità intrinseche di elementi che comunemente verrebbero considerati rifiuti. Nella storia dell’arte chi ha attinto tra gli scarti la propria materia ha avuto spesso un intento ironico o critico del consumismo o dell’estetica; in altri casi, come per Tanzini, ha semplicemente intravisto nel “rifiuto” le sue potenzialità comunicative. Basta pensare al David di Michelangelo sorto da un blocco di marmo già intaccato da un altro scultore. La poetica dello scarto (che sia un rifiuto industriale o residuo naturale) mette in campo la questione dell’artista come detentore del diritto di attribuzione del valore su ciò che un valore non ha: dai Ready Made di Duchamp passando per la Testa di toro di Picasso realizzata con i pezzi di una bicicletta, le compressioni di César e le accumulazioni di Arman, Kurt Schwitters con il Merzbau, la stessa Merda d’artista di Piero Manzoni, i giochi di Bruno Munari, Jean Tinguely e Daniel Spoerri.
Vicino alla pura creazione, il lavoro di Armando Tanzini, fatto di contaminazioni autentiche, genetiche, è una splendida idiosincrasia, volta a ricordare gli scopi magici dell’arte, al fine di esorcizzare le umane bassezze che intercorrono tra Africa e occidente.