Ha «inventato» Malindi. Ha progettato il più esclusivo hotel di Nairobi. Oggi si dedica alla scultura e alle fondazioni benefiche. Parla il livornese che voleva sedurre il Continente nero ne è rimasto sedotto
di Monica Bogliardi
Armando Tanzini è un torrente in piena. È difficile ascoltarlo. Difficilissimo, poi, definirlo. Perché ha progettato le più belle ville di Malindi, riconoscibili dai tetti enormi, fuori misura, o dalle sagome eccentriche, come la palafitta che disegnò per Giorgio Cefis; ha arredato la casa di Flavio Briatore; ha ideato il lussuoso Safari Park Hotel di Nairobi; ma non è solo un architetto. Infatti è anche artista, le sue sculture sono alla Biennale di Venezia in un padiglione molto visitato in queste settimane; è imprenditore e filosofo. «Il pensiero crea la forma» ripete, e ha creato la fondazione Do not forget Africa, che promuove laboratori di creatività per giovani artisti. Tanzini è pure un dongiovanni. Non per niente ha 60 anni, un bel viso solcato da rughe tropicali, verve livornese e due matrimoni alle spalle.
Non c’è dubbio che abbia consacrato la sua vita a tre amori, l’Africa, l’arte e le donne, che per lui sono tutt’uno. Cacciatore pentito, se parla di femmine usa metafore da savana («Sono come i rinoceronti, vedo poco ma mi aiuto con l’olfatto»). E se discetta d’arte lo fa descrivendo il profumo dei pezzi di legno restituiti dal mare alla spiaggia di Malindi e da lui usati come materiali. Ora Tanzini ha portato i suoi lavori alla Biennale di Venezia, città in cui nell’ultimo anno ha allestito due mostre. Nel 2004 a Bruxelles allestirà una personale. Insomma, un momento di grazia. Che racconta a Panorama.
Lei dipinge e scolpisce nella sua casa in Kenya. Come mai si è stabilito lì?
Ero andato a Parigi nel ‘67 seguendo le mie passioni, pittura e scultura appunto. E davanti ai lavori di Brancusi e Modigliani, ispirati dall’art nègre, ho deciso di vedere quel luogo che portava tanta spiritualità sulla terra. Una volta a Malindi, quasi per gioco ho cominciato a costruire ville, lodge, hotel. Mi ero messo in testa che potevo migliorare la qualità della vita in Africa attraverso la creatività: lì c’è l’energia per fare qualsiasi cosa. Il Continente nero, purissimo, garantirà la sopravvivenza a tutti. L’importante è smettere di sfruttarlo.
Perché ha scelto proprio Malindi?
È la più antica città della costa ed è sull’Equatore, vicino al cielo, quasi nell’altra dimensione. Ed è un crocevia di razze e religioni. Bene integrate in un paese che è uno dei pochi in Africa a non aver fatto guerre negli ultimi anni. Risultato: a Malindi non si va, si torna. Lì gli esperimenti più arditi riescono.
Quali, per esempio?
Io ho ideato il Tana River, progetto di conservazione di un’enorme fetta di territorio, in cui ora vivono e producono due tribù ex nemiche e dove sopravvivono animali in via d’estinzione. Poi ho piantato 10 mila alberi che producono il Neem, antimalarico naturale conosciuto da millenni. In Africa, poi, vorrei fare una sorta di urbanizzazione spaziale: un’idea che porta case, negozi, uffici in aree sopraelevate, e lascia che il territorio sottostante torni alla Terra.
Come sono gli italiani di Malindi?
Sono l’opposto di quelli di Nairobi. Nella capitale ci sono i grandi dirigenti: posto fisso ben retribuito, nessun rischio. A Malindi invece ci sono gli italiani che fanno delle scommesse imprenditoriali e vivono lì. Poi ci sono quelli come Giorgio Cefis, Flavio Briatore, Luigi Colajanni, che si sono innamorati del posto e ci vanno appena possono.
È vero che lei era il miglior amico di Edoardo Agnelli?
A Malindi lui era spesso da me, passavamo ore a vagheggiare di introdurre l’ora di etica nelle scuole. Era una specie di santo moderno che parlava d’amore.
Si dice che Achille Occhetto le abbia dedicato le prime pagine del suo libro…
Vero, un incontro avvenuto durante una cena nel mio giardino di baobab in Africa. Non dico altro.
Esiste una movida a Malindi?
È la natura che detta i ritmi della socialità. Quando si abbassa la marea e si alza il vento, verso sera, cambiano tutti i rumori. Allora si va a casa degli amici per godere del vero spettacolo, della vera movida, che è il tramonto. Poi, magari, si va al Baby Marrow, ristorante gestito da Walter, un toscanaccio che cucina alimenti africani sceltissimi col miglior olio d’oliva. Un vero creativo di cucina povera. Poi si fa un salto all’Art Gallery, galleria d’arte moderna dove transitano le più belle opere del Kenya. Si passa alla Malindina, resort dove si beve qualcosa a bordo piscina. O dal sarto Shabir, che copia subito, e per pochi euro, gli abiti griffati occidentali.
Ora che l’Africa è diventata un tormentone, lei è sempre di più in Italia. È il classico livornese bastiancontrario?
Può sembrare, ma la verità è che ho svoltato: basta ville, basta business. Ho accettato di partecipare alla mia prima Biennale e di fare mostre qui e là in Europa, perché ho intuito che l’arte è il modo più veloce per far passare delle cose dall’aldilà alla dimensione terrena. Me l’ha insegnato l’Africa, che è arte allo stato puro, energia positiva. Un luogo che non potrei tradire, perché l’Africa è ovunque. I giovani sono quelli che l’hanno afferrato meglio: nel mio staff niente collaboratori sopra i 25 anni.
Perché scolpisce cavalli e donne?
Amo i cavalli perché sono animali armonici la cui figura sembra in procinto di slanciarsi verso l’alto e l’altrove. Ma poi stanno ben ancorati sulla terra, con quelle narici che sembrano assorbire tutti i profumi. E le donne perché scendono sulla Terra, depongono le ali in guardaroba e si occupano degli uomini.
Tanti anni in Africa le hanno fatto capire di se stesso?
L’Africa è una trincea e chi vive al fronte deve avere pesi leggeri: basta con i matrimoni, non ci sono tagliato. Vivo in un posto dove vige l’etica naturale, dove i Masai giacciono con le mogli dei pastori e per avvisarli mettono una lancia davanti alle capanne. Tutto libero, tutto possibile. Gli inglesi dicono: sei sposato o vivi in Kenya. Hanno capito tutto.